Elettricità del Passato: le Pile di Bagdad
No, non intendo ripropormi e riproporvi il manzoniano interrogativo sul Grande Còrso. Intendo riferirmi all’altrettanto illustre Alessandro Volta e al non meno celebre Luigi Galvani, italici geni dell’elettricità, quando non era ancora ben chiaro cosa essa fosse in realtà. Lo scienziato comasco scoprì che quando due metalli diversi – ad esempio, Rame e Zinco – vengono immersi in una soluzione alcalina o acida, si genera una differenza di potenziale – una tensione elettrica – tra i metalli stessi e una corrente può scorrere in un conduttore che li unisce.
L’Arco Elettrico
Intuì quindi che disponendo uno sopra l’altro dischetti di due metalli diversi, alternandoli e anteponendo un sottile strato di separazione costituito da carta inumidita con una soluzione acidula, si poteva ottenere una differenza di potenziale ben maggiore. Era nata la ormai ben nota ‘Pila elettrica’.
Poco dopo – nel 1808 – l’inglese Humphry Davy, in una dimostrazione pubblica presso la Royal Institution di Londra, usò una ‘Pila di Volta per dimostrare che era possibile creare una potente e continua ‘scintilla’ tra due elettrodi di carbone: era nato il cosiddetto ‘arco elettrico’.
Le Pile di Volta e le Pile di Bagdad
La corrente elettrica generata da alcune ‘Pile di Volta’, fluente tra i due elettrodi di carbone tenuti quasi in contatto, generava infatti un arco elettrico mentre l’intenso calore che ne derivava rendeva incandescente gli elettrodi stessi, illuminando ‘a giorno’ l’ambiente circostante. La geniale idea sarebbe stata sicuramente destinata all’oblio, dato il rapidissimo consumarsi degli elettrodi, se successive modifiche apportate prima dall’inglese W. E. Staite (nel 1846), successivamente – e in maniera definitiva – da Paul Jablochkoff, con la sua “candela elettrica”, realizzata con due elettrodi non più in linea, contrapposti, ma posti uno accanto all’altro, paralleli e separati da un isolante di caolino.
L’arco elettrico scendeva gradatamente man mano che gli elettrodi stessi si consumavano, dando vita così a vere e proprie lampade che ottennero un immediato successo, tanto da essere impiegate nel Dicembre del 1878 nel Victoria Embankment, la prima strada inglese ad essere illuminata grazie alle ‘candele elettriche’. Ma, fu vera gloria? Proseguiamo e poi vedremo di dare una ‘eretica’ risposta a questa domanda che insistentemente ci poniamo.
Gli studi del chimico inglese Humphry Davy, il ‘padre’ dell’arco elettrico’ che abbiamo prima incontrato, unitamente alla ricerche in campo elettrochimico effettuate da Michael Faraday nei primi anni del XIX secolo, condussero all’invenzione della ‘Galvanostegìa’, ciè allo sfruttamento dei fenomeni di elettrolisi per ricoprire un metallo con un sottile strato di un altro metallo, di solito ‘nobile’.
Un ufficiale d’artiglieria prussiano, Werner von Siemens, verso il 1842 perfezionò il processo di Galvanostegìa a fini industriali, tanto che la ’Elkingtons’ – fabbrica inglese di posate – acquistò il brevetto di von Siemens e già pochi anni dopo, nel 1860 mise in commercio oggetti d’uso comune realizzati in metalli ‘non nobili’ ‘placcati’ con argento.
Le Pile di Bagdad e la Galvanostegìa
Nel 1869 si mise a punto il processo di Galvanostegìa utilizzante il Nickel (‘Nichelatura’) e nei primi decenni del ‘900 si diffuse anche la ‘Cromatura’. Il processo di ‘doratura’ – ad esempio – consiste, in estrema sintesi, nel far scorrere una corrente elettrica, di una certa intensità, attraverso una ‘cella’ costituita da un recipiente contenente come ‘elettrolita’ una soluzione chimica di un sale del metallo con cui si vuole ricoprire un oggetto buon conduttore di elettricità e utilizzando come elettrodo negativo (il catodo) l’oggetto stesso. Al polo positivo (l’anodo) viene collegato un elettrodo costituito da un piccola lastra del metallo, l’oro, destinato ad essere ‘placcato’. Il flusso di corrente ‘scioglie’ l’oro dell’anodo, oro che si deposita allo stato puro sul catodo, ricoprendolo in modo uniforme con uno strato sottilissimo del ‘nobile’ metallo.
Quella di Volta, di Davy e di von Siemens “fu vera gloria?” Forse no. Forse qualcuno molto, molto tempo prima aveva avuto le stesse geniali intuizioni ? Forse la produzione, anche se con metodi rudimentali, di energia elettrica deve essere retrodatata di circa venti secoli ?
Ma vediamo alcune possibili risposte alla domanda che ci siamo fino ad ora posti.
Khuyut Rabbou’a (Bagdad), 1936.
Durante gli scavi nell’area archeologica presso questa località dell’Iraq, abitata – tra il II secolo a.C e il II d.C. – dai Parti, fu rinvenuto uno strano oggetto costituito da un’anfora ovoidale di terracotta, alta 15 centimetri, impermeabilizzata internamente con bitume e munita di strani ‘accessori’.
Le Pile di Bagdad
Nell’imboccatura della piccola anfora, bloccato da un tappo di bitume, c’era infatti un cilindro di rame, molto corroso, lungo circa 9 centimetri e con un diametro di due centimetri e mezzo circa, con all’interno una piccola, ossidatissima, barretta di ferro.
Dapprima classificato, ovviamente, come ‘oggetto di culto’, lo strano reperto fu poi identificato da uno degli scopritori, il tedesco König, per quello che – molto verosimilmente – era: un elemento di una batteria elettrica.
Con l’aggiunta di un acido debole, come ad esempio l’acido citrico contenuto nel succo di limone, un dispositivo del genere è in grado di generare una differenza di potenziale di circa un volt.
Esperimenti condotti da chi scrive mediante alcune ‘Pile di Bagdad’, realizzate in base alle descrizioni del reperto mesopotamico, hanno confermato la possibilità di generare senza troppe difficoltà tensioni di 6-8 volt mediante il collegamento in serie di più elementi.
Un collegamento serie-parallelo di molte ‘Pile di Bagdad’ avrebbe consentito, verosimilmente, di praticare artigianalmente rudimentali processi di doratura che potrebbero spiegare come in antico si riuscisse a deporre una sottilissima ‘foglia’ di pochi micron di spessore (15 – 30 millesimi di millimetro al massimo!) su monili prodotti oltre venti secoli prima che l’idea stessa di ‘corrente elettrica’ facesse parte del bagaglio di conoscenze scientifiche dell’umanità. Ma allora è verosimile che in antico fosse nota la possibilità di produrre energia elettrica a bassa tensione con le Pile di Bagdad? Ben prima dei pur geniali Galvani e Volta!
Ma allora è possibile che alcuni reperti archeologici costituiti da un substrato metallico ricoperto da un sottilissimo strato d’oro siano stati ‘placcati’ mediante un rudimentale processo di Galvanostegìa ante litteram?
Eretici dubbi… sulle Pile di Bagdad
Non è provato ma è estremamente… probabile! Ovviamente l’onnipresente ‘rasoio di Occam’ deve però indurci a procedere con cautela, ipotizzando anche soluzioni alternative.
Già dal 1839, ad esempio, sembra fosse noto un processo di doratura – verosimilmente in uso anche presso gli artigiani di Bagdad – che non richiedeva l’impiego di una sorgente di energia elettrica.
L’oggetto da dorare veniva immerso in una soluzione di un sale dell’Oro, a base di Cianuro [Au(Cn)2], contenuta in un anfora di terracotta porosa. Quest’ultima era contenuta a sua volta in un recipiente di più ampie dimensioni nel quale veniva versata una soluzione acquosa di Acido solforico [H2SO4] o Cloruro di Sodio [NaCl], nella quale era immersa una lamina di Zinco collegata all’oggetto da dorare.
Lo Zinco si ossidava, all’anodo, passando in soluzione come ione e al catodo l’oro metallico si depositava in un sottilissimo strato sull’oggetto.
E’ anche ipotizzabile, quindi, che tecniche chimiche non contemplanti necessariamente l’impiego dell’energia elettrica – ‘ufficialmente’ sconosciuta prima della fine del XVIII secolo – siano state impiegate anche secoli prima, all’epoca dei Parti, per la doratura di monili e di altri oggetti ornamentali di piccole dimensioni. Ma procediamo con i nostri ‘eretici’ dubbi.
di Roberto Volterri
tratto dal libro Archeologia dell’Impossibile
Tecnologie degli Dèi
AUTORE: ROBERTO VOLTERRI
PREFAZIONE: MARIO PINCHERLE
FORMATO: 16 X 23
PAGINE: 164
ISBN: 978-88-89713-19-8
Archeologia dell’Impossibile
Sarebbe ben arduo sperare di rintracciare in qualche Museo alcuni dei reperti descritti in questo libro. Perché? Ma è semplice: perché… non esistono o non sono mai esistiti. Almeno ‘ufficialmente’… Questo lavoro vorrebbe, quindi, colmare tale lacuna e dovrebbe essere inteso come un vero e proprio manuale di “Archeologia eretica”, indispensabile a tutti quei ricercatori dell’ignoto che vogliono affrontare uno studio sperimentale sulle “possibili tecnologie antiche”, con l’indispensabile apertura mentale necessaria ad intraprendere una strada irta di ostacoli, ma soprattutto nel pieno rispetto dell’ortodossia scientifica.
L’Autore, pur occupandosi in ambito universitario degli aspetti più concreti della ricerca archeologica, ha tentato di ricostruire impossibili oggetti, basandosi in alcuni casi su testi biblici, in altri su testimonianze storiche e in qualche caso facendo “atto di fede” nei confronti di qualche studioso del passato che ha sostenuto di averli visti o di averli realizzati egli stesso. Pile di Bagdad? Arca dell’Alleanza? Lumi eterni? Bussola Caduceo? Specchi ustori? Urim e Tummin? Lente di Layard? Sono degli oggetti “impossibili”… ma non per tutti e, seguendo le indicazioni fornite in questo libro, anche voi riuscirete a realizzarli facilmente!