Elettricità del Passato: le Lampade di Dendera
Scozia,1835: un maestro di scuola, James Bowman Lindsay, dichiara pubblicamente di essere riuscito a produrre luce elettrica mediante una sorta di ‘lampada’ elettrica da lui costruita, anche se le frammentarie descrizioni di quell’episodio lasciano alquanto perplessi.
1845, Stati Uniti: J.W.Starr brevetta una sua ‘lampadina’ elettrica con filamento di carbone racchiuso in un bulbo di vetro nel quale era stato praticato il vuoto.
1865, Germania: il chimico tedesco Hermann Sprengel mette a punto una pompa a vuoto, al mercurio, in grado di produrre un vuoto sufficientemente spinto, necessario per evitare il rapido esaurirsi del filamento di carbone.
1878, Inghilterra: l’inventore inglese Joseph Swan presenta la sua ‘lampadina elettrica’, in una conferenza tenuta presso la Società di Chimica di Newcastle.
Ma fu vera gloria?
1879, 21 Ottobre: Thomas Alva Edison riesce a far rimanere accesa la ‘sua’ ‘lampadina’ per ben 13 ore e mezza!
1880, Piemonte: Alessandro Cruto, inventore autodidatta, mette a punto una ‘lampadina’ elettrica, del tutto indipendentemente dalle ricerche di Swan e Edison, avviandone addirittura la produzione industriale ad Alpignano, in Piemonte.
1908, Stati Uniti: William D. Coolidge sostituisce il filamento di carbone con uno di tungsteno sinterizzato.
1913, Stati Uniti: il chimico Irving Langmuir introduce piccole quantità di gas inerti nei bulbi delle lampadine elettriche. E’ la nascita delle lampadine ad incandescenza quali noi oggi le conosciamo. Ma, fu vera gloria?
Siamo certi che nessuno prima di loro sia stato in grado di generare luce mediante bulbi di vetro muniti di un filamento e alimentati da energia elettrica?
Ma allora cosa sono quegli strani ‘bulbi’ piriformi, appoggiati su qualcosa che assomiglia moltissimo a degli ‘isolatori elettrici’, ‘bulbi’ nei quali sembra guizzare un ‘serpente’ tanto simile ad un… ‘filamento’ e ai quali sembra essere collegato un ‘cavo’ che ha tutta la parvenza di un vero e proprio…cavo elettrico di alimentazione?
E cosa sono quei quattro ‘contenitori’ da cui fuoriscono altrettanti ‘fili’ che sembrano terminare in una sorta di contenitore a forma tronco-conica poggiante su una specie di ‘ruota’? Forse degli ‘accumulatori elettrici’ ante litteram?
Ebbene sì: sto proprio parlando dei misteriosissimi bassorilievi visibili nel tempio dedicato alla dea Hathor, a Dendera (Egitto)!
Le cripte di Dendera (e le Lampade di Dendera) furono rinvenute, nella metà del XIX secolo, da Auguste Mariette, fondatore del Museo Egizio del Cairo. Auguste Mariette pubblicò nel 1869 i risultati delle sue ricognizioni nelle cripte del tempio, insieme ai disegni degli strani bassorilievi, disegni eseguiti, paradossalmente, alla luce di… lampade da minatore.
Le Lampade di Dendera
Nel 1934 Emile Chassinat fotografò gli interni del tempio e pubblicò i quattro volumi del suo lavoro ‘Le Temple de Dendera’ a cura dell’Istituto Francese di Archeologia Orientale, di Parigi. Il mondo dell’egittologia ‘ufficiale’ conobbe così quelle che furono chiamate ‘le pietre delle serpi’, cioè gli inquietanti bassorilievi con le stranissime raffigurazioni che potete ammirare nell’articolo.
Dal punto di vista cronologico, la costruzione del tempio di Dendera, si può suddividere in due fasi.
Un primo nucleo, che costitisce la parte sotterranea del tempio, contiene iscrizioni che ci rimandano sia al faraone Tutmosi III (1480-1448 a.C.), sotto il cui regno (XVIII Dinastia) l’Egitto raggiunse la sua massima espansione estendendosi dall’Eufrate fino alla quarta cateratta del Nilo, sia a Pepi I che regnò intorno al 3233 a.C., all’inizio dell’Antico Regno. La parte sovrastante, invece, risale ai Tolomei che governarono l’Egitto tra il 304 e il 30 a.C., anno in cui ebbe inizio la dominazione romana.
Da sempre Dendera risulta essere stata il centro principale del culto riservato alla dea Hathor. La città, in lingua egizia, era chiamata anche ‘unet’ o ‘Tantere’ (da cui Dendera) e la tradizione voleva che fosse stata donata ad Hathor direttamente da Râ. Tutto nel tempio di Dendera riconduce al mitico dio Thot, fonte di ogni Scienza: possiamo annoverare tra queste antiche conoscenze anche l’uso dell’elettricità? Possiamo superare gli inevitabili ostacoli derivanti da alcune ineludibili domande?
Come si procuravano gli antichi Egizi la necessaria fonte di energia elettrica?
Come producevano il vuoto nell’ampolla? A cosa poteva servire tutto il dispositivo illustrato nei bassorilievi di Dendera? Cosa sono le Lampade di Dendera?
Non è facile rispondere a questi interrogativi, ma ci proverò.
Abbiamo già visto che uno dei bassorilievi raffigura una serie di quattro strani ‘contenitori’ di forma quadrata dai quali escono altrettanti ‘cavi’ che confluiscono in un alto ‘vaso’ tronco-conico poggiante su una sorta di ‘ruota’ che ricorda molto la sezione di un… ‘agrume’.
Ebbene, non è del tutto escludibile – e in ciò concordo con l’interpretazione di Peter Krassa e Reinhard Habeck – che i quattro ‘contenitori’ fossero dei veri e propri accumulatori elettrici ai quali veniva fornita energia, a bassa tensione, dallo strano ‘vaso’ visibile sulla sinistra e che l’agrume simboleggiasse il tipo di elettrolita usato : del comune acido citrico contenuto appunto… negli agrumi! Forse proprio come accadde, molto più tardi, con la ‘Pila di Bagdad’! Ma era sufficiente la relativamente bassa differenza di potenziale, la tensione, ottenibile da una batteria di accumulatori?
Era forse necessaria una tensione maggiore per alimentare il ‘filamento’ (il ‘serpente’ guizzante all’interno della ‘lampada’)?
Come potevano creare un dispositivo in grado di trasformare una bassa tensione – tutto sommato non difficilmente ottenibile – in un’alta tensione capace, in alternativa, di innescare ‘effluvi’ (ancora il ‘serpente’!) in un’ampolla nella quale era stato praticato un vuoto non troppo spinto?
Un ‘anacronistico’ trasformatore elettrico
A San Marino, nel Marzo 2000, in occasione del “1° Simposio Mondiale sulle origini perdute della Civiltà e gli Anacronismi storico-archeologici”, proprio parlando degli ‘anacronismi’ dei quali è costellata la storia della Scienza, ho avuto modo di discutere a lungo con l’amico Dott. Clarbruno Vedruccio, fisico dell’Università di Urbino, sull’idea – della quale gli riconosco la paternità, ma alla quale ero… andato vicino anch’io – che un ben noto ‘simbolo’ egizio, lo Zed, rappresentasse in realtà un dispositivo ben poco ‘simbolico’ e molto più ‘tecnologico’: un trasformatore elettrico.
Ebbene sì: proprio un ‘anacronistico’ trasformatore elettrico i cui avvolgimenti, forse ‘a nido d’ape’ come quelli attuali, sono simboleggiati dai quattro elementi orizzontali dello Zed, mentre il nucleo del trasformatore sarebbe rappresentato dalla struttura verticale del sacro pilastro.
Il trasformatore delle Lampade di Dendera
Il Dott. Vedruccio si spinge oltre, ipotizzando che il nucleo – per avere caratteristiche ferromagnetiche – potesse essere, forse, costituito da Basalto del Sudan, le cui particelle ferrose, uniformemente orientate dal paleo-magnetismo, avrebbero potuto conferire alle anacronistiche Lampade di Dendera caratteristiche degne proprio di un modernissimo… trasformatore con nucleo a magnetini orientati!
Anche i quattro ‘elementi’ orizzontali dello Zed potrebbero trovare giustificazione dal punto di vista elettrotecnico perchè, così strutturati, gli avvolgimenti avrebbero presentato una minore ‘reattanza capacitiva’, caratteristica questa in grado di aumentare il rendimento del trasformatore di Dendera.
Lo Zed e le Lampade di Dendera
Ma l’elettrotecnica ci insegna che per avere su un secondario di un trasformatore – con un elevato rapporto-spire tra avvolgimento secondario e avvolgimento primario – degli impulsi ad alta tensione, è necessario che il flusso di corrente sul primario venga rapidamente interrotto. Come potevano, gli antichi Egizi, creare questo fenomeno?
Forse utilizzando lo stranissimo dispositivo, visibile sotto i due ‘accumulatori’ di destra, costituito, sembra, da un recipiente, un bacile, sul quale poggia una sorta di ‘sfera’ in grado di oscillare all’interno del recipiente stesso.
Possiamo ipotizzare che il sistema contemplasse un rapido movimento oscillatorio meccanico della ‘sfera’ (metallica?) e che questo movimento aprisse e chiudesse ciclicamente il ‘circuito primario’ del ‘trasformatore’ (uno degli elementi orizzontali dello Zed, cioè uno degli avvolgimenti ), causando così delle extratensioni di apertura e chiusura del circuito che si sarebbero manifestate, sul secondario, come impulsi ad alta tensione.
Nè più nè meno di quel che si verificava nelle automobili di qualche anno fa (ante… centralinam!), con le ‘puntine’ platinate che chiudevano e aprivano ciclicamente il circuito ‘primario’ della ‘bobina’, percorso dalla corrente a bassa tensione prodotta dalla ‘batteria’, generando sul ‘secondario’ l’alta tensione destinata alle ‘candele’! E il vuoto? Come potevano ottenerlo?
Forse non troppo difficilmente, se avessero impiegato una pompa idraulica, a caduta d’acqua, come sembra di poter intuire osservando uno dei bassorilievi di Dendera (Lampade di Dendera) nel quale si vedono due individui che tengono in mano un dispositivo tubolare dal quale esce del liquido.
Ma a cosa potevano servire tutte queste tecnologiche strutture?
L’amico Vedruccio, avventurandosi ‘ereticamente’ nel suggestivo campo delle ipotesi, pensa addirittura che la funzione delle ‘lampade di Dendera’ fosse quella di generare Raggi X, destinati forse all’individuazione di minerali fluorescenti a tale radiazione.Ben prima del 1895, quando Roentgen mise a punto un’ampolla (‘stranamente’ molto simile a quelle di Dendera!) operante in atmosfera rarefatta per la produzione di questa radiazione.
Forse più realisticamente penso che se accettiamo tutte le congetture fin qui esposte riguardo un’interpretazione ‘tecnologica’ dei bassorilievi di Dendera, se non gettiamo aprioristicamente ‘alle ortiche’ la ‘Pila di Bagdad’, non è irrealistico pensare alla possibilità che in antico fossero realizzabili strumenti e apparecchiature basate su conoscenze di fisica andate poi perdute e… riacquistate molti, molti secoli dopo, dai Galvani, dai Volta, dai Crookes, dai Roentgen che si sono succeduti nello studio, nella scoperta (o ri-scoperta ?) delle leggi sull’elettricità.
Conoscenze, forse, sfruttate dalla casta sacerdotale, egizia in particolare, per accrescere il proprio prestigio, la propria autorevolezza.
“Omne ignotum pro magnifico “, sosteneva Tacito (Vita di Agricola, 30)!
“Tutto ciò che è sconosciuto è sublime”: ebbene – ne sono perfettamente consapevole – tutto questo farà inorridire qualunque storico della Scienza di ‘strettissima osservanza’, mentre potrebbe inoculare il fatidico ‘tarlo del Dubbio’ nelle menti più aperte, più propense ad accettare ‘eretiche’ ipotesi di lavoro pur di far avanzare di un passo non la Scienza stessa, ma – in un’ottica ben più ampia – la Conoscenza.
Ma, se volessimo produttivamente concludere questo nostro excursus nel campo delle ‘impossibili’ conoscenze scientifiche e tecnologiche degli antichi, dovremmo forse porci altri, fondamentali interrogativi.
Le Lampade di Dendera sono state ri-scoperte?
Perchè, ad esempio, l’azione di un comunissimo acido debole, come succo d’uva fermentato o succo di limone, su due metalli, come Rame e Ferro – che dette verosimilmente origine all’invenzione della cosiddetta ‘Pila di Bagdad’ – dovette attendere molti altri secoli, fino alla fine del XVIII secolo quando il comasco Alessandro Volta ri-scoprì lo stesso principio fisico che, forse, aveva probabilmente consentito a quelle antiche popolazioni di ricorrere ad un’anacronistica ‘Galvanostegìa’ per dorare alcuni manufatti metallici scoperti nello stesso sito archeologico?
Perchè un’invenzione ‘semplice’ a realizzarsi come la ‘lampadina elettrica’ (ma forse ben più difficile ad essere concepita!), probabilmente già ‘inventata’ ed utilizzata nell’antico Egitto, dovette attendere i vari Swan, Cruto, Edison per essere (forse) re-inventata?
Lampade di Dendera: un ricordo cancellato?
Non ho definitive risposte a queste domande e a molte, molte altre che ci porremo in qualche prossimo articolo: forse la spiegazione più ovvia, quasi banale, consiste nel fatto che la mancanza d’uso… cancella il ricordo.
Chi di voi saprebbe ancora eseguire, con carta e penna, una qualsiasi ‘radice quadrata’, dopo l’avvento delle calcolatrici digitali che forniscono il risultato premendo un semplice tasto? Chi saprà costruire, fra qualche decennio, la rudimentale, semplicissima ‘radio a galena’ che fece compagnia ai nostri nonni e che, per i lettori appassionati di sperimentazione, ho ben descritto nel libro Gli stregoni della Scienza? (Eremon Edizioni) Forse nessuno, per il semplice motivo che… non ne abbiamo, e neppure ne avremo, necessità! Salvo ricorrere ai testi che ne descrivevano la realizzazione e l’uso. Ma, in antico (e non solo!) intervenne l’incendio della Biblioteca di Alessandria…
Un’altra spiegazione potrebbe imputare a eventi bellici di vasta portata la responsabilità della distruzione di particolari invenzioni o scoperte che, proprio a causa degli eventi stessi, non ebbero la possibilità di diffondersi, di essere maggiormente conosciute e, di conseguenza, di avere ben maggiori probabilità di sopravvivenza.
Solo il nuovo insorgere delle medesime necessità, in concomitanza con il nascere di geniali individui in grado di cogliere i rapporti tra eventi, tra fenomeni apparentemente non correlati, dettero (e daranno) origine alle stesse invenzioni o alle stesse scoperte avvenute secoli o millenni prima…
Ma, “fu vera gloria” ?
Come ho già avuto modo di evidenziare in articoli e libri, a volte nihil sub… Scientia novum ! Nulla di nuovo sotto il sole…
di Roberto Volterri
tratto dal libro Archeologia dell’Impossibile
Tecnologie degli Dèi
AUTORE: ROBERTO VOLTERRI
PREFAZIONE: MARIO PINCHERLE
FORMATO: 16 X 23
PAGINE: 164
ISBN: 978-88-89713-19-8
Archeologia dell’Impossibile
Sarebbe ben arduo sperare di rintracciare in qualche Museo alcuni dei reperti descritti in questo libro. Perché? Ma è semplice: perché… non esistono o non sono mai esistiti. Almeno ‘ufficialmente’… Questo lavoro vorrebbe, quindi, colmare tale lacuna e dovrebbe essere inteso come un vero e proprio manuale di “Archeologia eretica”, indispensabile a tutti quei ricercatori dell’ignoto che vogliono affrontare uno studio sperimentale sulle “possibili tecnologie antiche”, con l’indispensabile apertura mentale necessaria ad intraprendere una strada irta di ostacoli, ma soprattutto nel pieno rispetto dell’ortodossia scientifica.
L’Autore, pur occupandosi in ambito universitario degli aspetti più concreti della ricerca archeologica, ha tentato di ricostruire impossibili oggetti, basandosi in alcuni casi su testi biblici, in altri su testimonianze storiche e in qualche caso facendo “atto di fede” nei confronti di qualche studioso del passato che ha sostenuto di averli visti o di averli realizzati egli stesso. Pile di Bagdad? Lampade di Dendera? Arca dell’Alleanza? Lumi eterni? Bussola Caduceo? Specchi ustori? Urim e Tummin? Lente di Layard? Sono degli oggetti “impossibili”… ma non per tutti e, seguendo le indicazioni fornite in questo libro, anche voi riuscirete a realizzarli facilmente!